24 marzo 2022

La predica (o, forse meglio, il "concione") di san Francesco a Bologna del 15 agosto 1222


Ricorre quest'anno l'VIII centenario di un fatto che rimane nelle cronache per la testimonianza di Tommaso Arcidiacono, detto "da Spalato" (1200/1201-1268), che fu sacerdote, storico e cronachista dalmata. Nella sua Historia, finita nel 1266, così riguardo all'anno 1222 scrive:

In quello stesso anno, il giorno dell’Assunzione della Madre di Dio, mentre mi trovavo allo Studio di Bologna, vidi san Francesco che predicava nella piazza antistante il Palazzo Comunale, dove era convenuta quasi tutta la cittadinanza. L’inizio del suo sermone fu questo: «gli angeli, gli uomini, i demoni»; di questi tre spiriti razionali predicò così bene e con tanto discernimento, da riempire molti dotti presenti di ammirazione per il sermone di un uomo incolto; né peraltro egli seguiva le regole di chi predicasse, ma quasi quelle di chi tenesse un discorso. Invero tutta la sostanza delle sue parole era rivolta ad estinguere le inimicizie e a ripristinare i patti di pace. Il suo abito era sordido, la sua persona spregevole, il suo aspetto indecoroso; ma a tal punto Dio conferì efficacia alle sue parole, che molte famiglie nobiliari, tra le quali l’inarrestabile furore di antiche inimicizie aveva imperversato con grande spargimento di sangue, vennero ricondotte a consigli di pace. Così grande era poi la reverenza e la devozione nei suoi confronti, che uomini e donne si gettavano in massa su di lui, cercando ansiosamente di toccare i lembi della sua veste o di portar via un pezzo dei suoi panni miserabili.

Presente a questa predica sembra essere stato anche Federico Visconti, arcivescovo di Pisa, che così si espresse in un sermone pronunciato nel 1265: «Veramente beati coloro che videro lo stesso santo, cioè Francesco, come l’abbiamo visto anche noi per grazia di Dio e l’abbiamo toccato con la nostra mano nella piazza comunale di Bologna, in mezzo ad una grande calca di uomini…». Un riferimento a questo avvenimento sembra di poterlo trovare anche in altre fonti come ad esempio il capitolo XXVIII dei Fioretti, dal titolo: "Come santo Francesco convertì a Bologna due scolari, e fecionsi frati; e poi all’uno di loro levò una grande tentazione da dosso". 

Giugnendo una volta santo Francesco alla città di Bologna, tutto il popolo della città correa per vederlo; ed era sì grande la calca, che la gente a grande pena potea giugnere alla piazza. Ed essendo tutta la piazza piena d’uomini e di donne e di scolari, e santo Francesco si leva suso nel mezzo del luogo, alto, e comincia a predicare quello che lo Spirito Santo gli toccava. E predicava sì maravigliosamente, che parea piuttosto che predicasse agnolo che uomo, e pareano le sue parole celestiali a modo che saette acute, le quali trappassavano sì il cuore di coloro che lo udivano, che in quella predica grande moltitudine di uomini e di donne si convertirono a penitenza. Fra li quali sì furono due nobili studianti della Marca; i quali due per la detta predica toccati nel cuore dalla divina ispirazione, vennono a santo Francesco, dicendo ch’al tutto voleano abbandonare il mondo ed essere de’ suoi frati [...].

A proposito del modo di parlare di Francesco di cui la testimonianza di Tommaso da Spalato, così scrive Felice Accrocca in un articolo pubblicato su www.sanfrancescopatronoditalia.it (qui):

Preziosissima si rivela poi la notazione riguardo allo stile della predicazione di Francesco, che lasciava scorgere in lui un oratore politico (contionator), più che un predicatore vero e proprio. La contio era un’assemblea di popolo, il contionator quello che oggi si direbbe un comiziante, il quale — secondo quanto insegnava un maestro del tempo, e cioè Boncompagno da Signa nella sua Rethorica novissima — doveva fortemente impressionare l’uditorio, non tanto e non solo con le parole, quanto anche con le proprie espressioni e i propri gesti. Secondo Erik Auerbach, tutto quello che Francesco fece, dal momento della conversione fino al giorno della sua morte, «fu una rappresentazione; e le sue rappresentazioni erano di tale forza che egli trascinava con sé tutti coloro che lo vedevano o ne avevano soltanto notizia» (Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, 1956).

Attraverso queste sue “rappresentazioni ” egli riconobbe i suoi errori, come quando ad Assisi, dopo aver predicato sulla piazza antistante la chiesa di San Rufino, ammise che durante una quaresima (con tutta evidenza, nella quaresima detta di san Martino, che precedeva il Natale del Signore) aveva mangiato carne e brodo di carne. Ancora ricorrendo a tale espediente corresse i suoi frati, come quando a Greccio, nel giorno di Natale di un anno imprecisato, vedendo che la mensa comunitaria era stata riccamente imbandita, uscì di nascosto e si ripresentò alla porta travestito da mendicante, suscitando commozione e pentimento tra di essi.

«Quale idea geniale da palcoscenico — scrisse ancora Auerbach (ibidem, p. 177) — di prendere il cappello e il bastone di un povero e di mendicare presso dei mendicanti! Ci si può immaginare lo sbalordimento e la vergogna dei frati quando egli col piatto si siede sulla cenere dicendo: Adesso sto seduto come un vero frate minorita…». Francesco non seguiva dunque le regole tipiche del genere predicatorio, ma piuttosto manteneva una stretta aderenza al vissuto quotidiano. Non solo: la sua non era una predicazione esclusivamente verbale, bensì faceva ricorso a tutti gli strumenti che aveva a disposizione. Tra gli agiografi del Santo, è Tommaso da Celano a rivelare una spiccata attenzione alla corporeità di Francesco, alla sua capacità di predicare anche con il corpo, fino a fare di esso una lingua — come scrisse con espressione efficace —, accentuandone gli aspetti drammatici.

In fondo, è proprio questa fisicità, questa concretezza di uomo in carne ed ossa ad emergere dal racconto della predica che Francesco tenne davanti a Onorio III e ai cardinali. Il Celanese narra infatti che nel corso di quella — per molti aspetti delicatissima — predicazione, Francesco, non riuscendo più a contenersi per la gioia, mentre parlava muoveva i piedi, quasi stesse saltellando. L’agiografo, in questa circostanza, riferisce onestamente i fatti così come gli erano stati narrati: valga a testimoniarlo la descrizione del timore che pervase il cardinale Ugo di Ostia di fronte a un simile modo di fare. Tommaso precisa pure che il Santo si comportò in quella maniera «non come chi scherzi», ma perché ardeva del fuoco dell’amor divino, motivo per cui una tanto strana predicazione non provocò il riso degli ascoltatori, quanto piuttosto un pianto di dolore: una precisazione che mostra tutta la difficoltà incontrata dall’agiografo dinanzi all’insolito comportamento di Francesco e perciò ne rafforza l’autenticità. Nondimeno, quel che più colpisce nel racconto di quanto accadde a Bologna il 15 agosto del 1222, è il fatto che la persona di Francesco, seppur «spregevole» e «senza bellezza», per la forza che Dio impresse alle sue parole, fece sì «che molte famiglie signorili», in guerra tra loro, fossero «piegate a consigli di pace». Troverebbe eguale ascolto, oggi, la sua parola, quando a prevalere sembra essere piuttosto una voglia sfacciata di mostrare i muscoli, una tendenza a escludere piuttosto che a includere, un bisogno quasi insopprimibile di belligeranza?

Alla predica di san Francesco a Bologna si è dedicato anche Dario Fo ne Lu santo jullare Francesco del 1999 di cui si legge: «Il Nobel, con l'aiuto di preziose fonti storiche dell'epoca, ha ricostruito la 'concione giullaresca' tenuta da San Francesco davanti ai bolognesi in un lontano giorno d'estate del 1200. Rielaborando i discorsi di San Francesco Fo da' vita ad una sorta di esilarante e grottesco 'grammelot' italico medievale, che mostra in tutta la sua efficacia la capacita' comunicativa del 'giullare' e santo Francesco» (qui). Sue le illustrazioni pubblicate in questa pagina.